Dalla memoria al mito – di Giuliano Manacorda

03 ottobre 2017

Dalla memoria al mito

di Giuliano Manacorda*

 

L’opera di Rodolfo Di Biasio aveva preso inizio in un momento in cui la poesia neorealista aveva perso ogni credito, se pur lo aveva mai avuto, la poesia ermetica aveva esalato il suo secondo e ultimo respiro e la poesia neoavanguardista non aveva ancora emesso il primo vagito. Era naturale che il suo istinto poetico trovasse subito la realizzazione nel mondo a lui più vicino, il paese, gli affetti, la memoria e, insieme, il verso in prima persona. L’importante era non cadere nella privata innocenza impoetica, nell’ennesima fenomenizzazione post-crepuscolare, e forse la via nuova era già allusa (può darsi inconsciamente) in quel “volo di una rondine” che troviamo quasi ad apertura di questa raccolta. Perché quel volo così domestico e ‘grazioso’ lo troviamo al voltar di pagina destinato a ben altro esito per chi pur dimorando nel “paese” del nostro pianeta, inventa “crocicchi celesti”, “oceani siderali” e “spazi galattici”. […]

 

Qui, a nostro modo di vedere, si decide la sorte del poeta Di Biasio. Siamo negli anni ’60 – ’70 e gli sarebbe facile aggregarsi a tutti gli sperimentalismi in voga; ma deve essere stato un immediato istinto di (buon) gusto e di cultura a tenerlo lontano e a indurlo a farsi “creatore di miti”, da intendersi, ovviamente, nel senso più terreno e poetico del termine. Ma – insomma – a noi pare che la strada percorsa da questo poeta in quattro decenni, cosi lunghi e cosi parsimoniosi nell’esibirsi, ci porti dall’angolo di paese alla creazione di miti, anzi dell’unico vero grande mito che è quello dell’uomo che vuol conoscere la propria sorte.

 

Ciò accade – né poteva essere diversamente – da una parte anticipando fin dalle poesie giovanili poesie che esorbitavano dal piccolo mondo da cui il poeta partiva, dall’altra non dimenticando nel momento delle maggiori invenzioni le condizioni dell’incerta e ormai remota biografia […]

Se scorriamo dalle prime alle ultime queste poesie, crediamo sia possibile giungere a dire che, scartati quasi a priori tutti gli istituti poetici tradizionali – verso sillabico, rime o assonanze, strofe, almeno nel significato proprio del termine – per una modernità che è ormai prassi consueta nella poesia novecentesca, egli si deve esser trovato, quasi per una innata disposizione, ad usare una parola discreta, spesso comune, da non declamare nemmeno quando il significato poteva accennare a una dimensione superiore. E allora il verso lungo o breve e talora brevissimo rispondeva a una dizione senza gravi sporgenze, con pochi punti esclamativi o interrogativi: una poesia da dire e non da declamare, al massimo da recitare ma con una comunicazione chiara, talora un poco commossa ma mai pietistica o accattivante; un parlato che sottolinei senza esagerare le poche interpunzioni e dando piuttosto spazio a un continuum che non frammenti troppo il discorso. In altri termini, quello che potrebbe essere il recitativo dell’opera lirica (è stato detto per Montale e non solo) da ‘cantare’ su una corda sola senza troppo accentuate variazioni di tono per evitare il rischio di retoricizzazione che sarebbe il più inopportuno travisamento di una versificazione siffatta, dalla melodia spezzata eppure niente affatto prosastica per l’intima passione che sempre la sostiene. Ma se riprendiamo il discorso sull’iter che parte dall’“angolo di paese” e vede il poeta felice e disperato muovere alla scoperta del mondo lungo le vicende che si sgretolano fino ad arrivare alle rive di Patmos, quel ‘maestoso’ proprio di certa musica che pareva trattenuto nelle piccole o meno piccole concretezze della biografia ecco a poco a poco prender voce e segnare nuovi accenti: Di Biasio enuncia tutto il divario fra i suoi ieri e l’oggi, che è sì un rimpianto ma anche la coscienza e l’assunzione di nuovi impegni nella “nuova città”, pur portandosi dietro le “radici”, le interrogazioni, i progetti, siamo già al “tempo breve del crepuscolo” e alla ricerca di nuovi segni nel cielo: forse “un’altra poesia”, che non ripeta ancora della casa, dell’orto, del fico e del melo, sta per nascere anche se la memoria continua a dare i suoi assalti; ma ormai sono gli altri, a lui forse approdato dal naufragio, a chiedergli la traccia. […]

 

È aperta la via alla nuova parola: Patmos è punto d’arrivo, per ora, dalla cronaca della memoria alla grande avventura del mito; o – se si preferisce – dalle prime alle “altre contingenze” vitali e poetiche, quelle già anticipate nelle estreme poesie della raccolta tra la memoria profonda e i nuovi bagliori e le quiete interrogazioni. Patmos esce nel 1995 ma ha impegnato l’autore per lunghi anni, è stato il cammino e insieme l’approdo che lo ha accompagnato portando al punto più alto il senso del suo ormai lungo percorso di uomo e di poeta.

Impressiona il titolo di questi “canti” per i tanti e quasi sublimi richiami che esso sembra imporre al lettore. Ma – a leggere – la prima sorpresa è che l’autore non ha ripreso l’Apocalisse e San Giovanni, non vi è qui linguaggio mistico o spirito profetico, non vi sono enigmi o anticipazioni di future beatitudini (amenoché tutto ciò non lo si voglia intravedere attraverso una scrittura totalmente laica). E tuttavia una suggestione profonda da una cultura biblico-cristiana ha certamente continuato ad operare sul nostro poeta che – non dimentichiamolo – proprio negli anni della gestazione di Patmos traduceva il Cantico dei Cantici in una versione esemplare per fedeltà e modernità.

Il volumetto non contiene messaggi, piuttosto una confessione personalissima ma che forse ciascuno può far propria, è il risultato della poesia di un poeta dalla grande lena fantastica e dal grande cuore che può aver introitato tutte le possibili reminiscenze letterarie antiche e moderne per giungere a parlare di sé, forse di noi.

 

Per questo, lo spunto può essere autobiografico – lui di fronte alla grande voce del mare, ma quel mare su cui tanta storia è passata – e scopre che la verità, quella possibile verità a cui l’uomo può arrivare, è dentro la propria coscienza, è nelle cose, e scopre così la lacerazione tra la totalità che affascina e annulla e le sole possibili vie di resistenza – e tace quasi sbigottito di fronte alla propria piccolezza…

 

Con Patmos Rodolfo Di Biasio né compie virgilianamente il suo descensus Averno né dantescamente “drizza la mente a Dio”, ma compie il suo “itinerarium mentis” la cui meta resta il mistero, il perché della vita. E lo compie tutto in interiore homine nella solitudine e nel silenzio, lontano dalle contingenze quotidiane e lontano anche, certo con dolore, dalla presenza di persone e di cose che pur furono dolci un tempo, e dalle abitudini che pur furono del vivere quotidiano. Il poeta sembra ormai esser costretto a respingere l’ovvietà di un vivere consunto e si traccia le tappe di nuove esperienze; ma tappe non sono, piuttosto momentanei arresti, tentativi o illusioni come di chi dorme e spera che alle larve del sogno subentri il risveglio in un’alba che presto tramonta.

È, se non erriamo, il Poemetto del vetro a toccare l’approdo ultimo di questo precipitare nella desolazione del silenzio. Eppure è proprio in questo estremo che sembra rivelarsi il paradosso di quello che potrebbe apparire l’insperata salvezza: il dolore – il dolore dell’allontanarsi, come in una dissolvenza, delle figure care. Ma è un momento: Patmos rivela infine con le sue ultime parole l’inattingibilità del bene per l’uomo, il suo destino alla solitudine pur nell’irrinunciabile adoperarsi onde pervenire, al termine di un itinerario forse ancora tutto da scrivere in una prossima avventura poetica, alla “regione inarrivabile del puro”.

 

Patmos diventa allora il poema della pochezza del vivere e della speranza, forse inevitabilmente frustrata, del risveglio a una vita più vera, di nuovo e sempre battuta da un antico dolore. Il linguaggio di Di Biasio si è fatto ormai tragico e alto ma non aulico perché trepido di memorie e, nonostante tutto, di speranza che qualche bagliore vinca il ghiaccio del quotidiano. Ma sono momenti: il gesto cade, la voce trema, il cielo è deserto, chiuso l’orizzonte in un silenzio desolato.

Rodolfo Di Biasio sembra abbia percorso l’intera parabola della sua esistenza e della sua poesia, dalla piccola felicità alla consapevolezza che quella felicità è una “regione inarrivabile” e ogni sortita è improbabile; noi riteniamo che la saggezza di cui abbiamo già voluto dire gli suggerisca che è `la regione della purezza’ ad essere inarrivabile, non quella che quotidianamente ci impegna ad una sopravvivenza nonostante tutto non ritenuta indegna anche se non ci darà mai la soddisfazione totale. Lui ha per suo conto e per sua fortuna la gioia del dire questo e altro con una poesia che ormai si è fatta fra le più alte dei nostri anni.

 

Il testo è tratto dalla prefazione all’antologia Altre contingenze. Poesie 1958-1998  di Rodolfo Di Biasio (Caramanica, 1999)

 

Foto di Daniele Di Biasio

 

*Giuliano Manacorda (Roma 1919 – ivi 2010), critico letterario, è stato docente di Storia della Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea presso la facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Si è distinto quale autore di importanti volumi sulla letteratura del Novecento, a partire da Storia della letteratura italiana contemporanea, pubblicata da Editori Riuniti nel 1967, quindi aggiornata più volte nel corso degli anni. Ha curato monografie su poeti e narratori del secondo dopoguerra, e ha pubblicato diversi studi sulla letteratura italiana intorno agli anni trenta, come anche sulle riviste letterarie fiorite nel primo Novecento («Solaria», «La Ronda», «Il Baretti») e più recenti («Altri Termini», «Il Bimestre», «Nostro Tempo»). Sua anche la redazione del volume Marxismo e letteratura di Antonio Gramsci (Editori Riuniti, 1976). Diverse sono state le collane editoriali da lui avviate e dirette, dalla Biblioteca dell’Argileto fino a “Riprese”, collezione incentrata sugli autori del primo Novecento (Edizioni Empiria, Roma). Con Francesco De Nicola ha curato, nel corso degli anni novanta, l’annuario I Limoni (Edizioni Caramanica), sulla poesia italiana contemporanea; e per lo stesso editore, nel 2005, Tre generazioni di poeti italiani. Una antologia del secondo Novecento. È stato fondatore dell’Archivio Letterario del Novecento, ancora presso l’Università “La Sapienza”.